E quel tempo… ancora ci manca

Quarantotto ore di riposo poi, visto il turno pomeridiano, anche qualche ora del terzo giorno, per l’esattezza. Può capitare anche a me, a volte, l’incastro perfetto dei turni. Tutti lì, dunque, i minuti, in fila. Viverli pienamente per un intervallo dedicato, speso interamente per me stesso o quasi. Solo piccole faccende da sbrigare in mezzo. Cose futili con altrettanti nomi banali, senza cuore: bollette, tintoria, banca, poca spesa da single e nulla più. Ho accompagnato Erika, ieri, tra sorrisi e coccole nostre, per acquistare pattini da ghiaccio. Anche quello, però, è il mio tempo compiuto.
Oggi, invece, guardo un film scaricato dalla rete: “The terminal”, con Tom Hanks e Catherine Zeta-Jones. Piacevole, quasi paradossale nel suo contesto. Una storia creata a misura di spettatore. Sentimenti buoni ed altro ancora, in verità, rappresentati nel colorato caos dell’aeroporto di New York City.
Sono avvolto dal guscio caldo della mia piccola casa, ora, in silenzio e al buio. Solo luce di immagini a creare qualche ombra amica. Un divano style in eco-pelle accoglie interamente la mia sagoma quieta. Sono in pace, almeno per adesso, ultimamente mi capita così di rado d’esserlo.
Ora, la mente libera sembra voler accettare soltanto il venirmi incontro di una storia stramba, incontrata quasi per caso, oggi, dai miei occhi attenti. Così, sequenze cinematografiche scivolano addosso come le parole, nutrendo, adesso, un istante intimo.
La trama, inserita tra vite di passaggio, racconta di un viaggio, di una hostess, di un barattolo di latta e di una foto di gruppo, nella quale, grandi jazzisti; cinquantasette per l’esattezza, posarono per quell’immagine eterna.
Correva l’anno millenovecentocinquantotto; il padre del protagonista, appassionato di jazz, folgorato da quel gruppo fantastico, catturato per sempre nello scatto di un flash, decise di vivere il suo sogno. Avrebbe scritto personalmente a ognuno di quei musicisti. Una, cento, mille lettere inviò, con l’unico scopo di farsi spedire un loro, pregiatissimo autografo. Nel corso di quarant’anni, quel barattolo, apparentemente insignificante, si riempì di bigliettini autografati da quei famosi. Prima di arrendersi per sempre alla sua vita, li ricevette uno a uno, tranne quello del leggendario sassofonista Benny Golson.
Così, il figlio protagonista della vicenda fece quel lontano viaggio che, dalla Cracovia, lo portò in America, per rianimare quel sogno paterno così tenacemente perseguito, mantenendo un’importante promessa fattagli per amore.
Questo era il nobile scopo, quindi: trovare quell’ultimo autografo mancante alla collezione. Completare il prezioso contenuto e la storia straordinaria di quel barattolo.
Incontrò Benny Golson al Ramada hotel di New York City, dove stava per far vibrare, ancora una volta, l’anima nera del suo magico sax tenore. Commosso ascoltò il concerto, quasi incantato da quel suono caldo e avvolgente. Poi, uscì dal locale tenendo tra le mani quell’unico, pregiato autografo tanto desiderato. Salì su un taxi e fece un gesto per sempre: infilò quel biglietto nel barattolo insieme agli altri cinquantasei. Ci mise dentro anche il suo cuore in quel barattolo, poi, emozionato, lo richiuse.
”Correva l’anno millenovecentocinquantotto”; iniziava così a raccontare ad un certo punto del film, con voce rotta dall’emozione, alla hostess incontrata casualmente in quell’aeroporto. Una data, quella, apparentemente insignificante, arrivata improvvisa al mio udito come un’onda gigantesca, si è infranta violenta nel mare calmo delle mie emozioni. Sono nato anch’io in quell’anno. Così, ricordi miei, improvvisi, affiorati da un passato mai troppo lontano, restano inevitabilmente legati a quel gesto e a ciò che, per me, non è stato. Il non averlo vissuto, mio padre, ha lasciato un solco profondo, eterno nel mio cammino.
Ho ricordato improvvisamente, quasi fosse un parallelo, un viaggio fatto a Cagliari qualche anno prima, per altri motivi: opportunità di un caso ma, anche, desiderato pretesto per trovare quella “antica” via.
Lì, mio padre, si fece fotografare nel millenovecentoquarantuno; indossava la divisa da pilota aeronautico.
Emozionato, trovai la strada cambiata di nome, non la bottega del fotografo, però. Quella fu spazzata via, per sempre, da qualche bomba spiccia sganciata nel quarantatre dai B17, famose “Fortezze volanti” alleate.
Mio padre, a quel tempo, aveva ventuno anni. Era un ragazzo già troppo cresciuto, come molti altri, in verità. Quel tempo orribile, colmo di brutture umane, lo esigeva. Teneva negli occhi e nelle tasche vuote la speranza di qualcosa che forse non arrivò mai. Mi piace da far male quella foto, mi ci posso quasi specchiare. Com’è strano guardare dentro un’immagine antica e grigia un genitore che ancora non lo era.
Anche la sua vita, in seguito, fu spazzata via troppo presto, e fu così per entrambi. Ci siamo lasciati senza poter conoscere un tempo nostro, e quel tempo… ancora ci manca.
Tornai sereno da quel viaggio. Come un erede buono che ha onorato il padre per ciò che gli è stato concesso; mi sentivo orgoglioso, profondamente vicino a lui. Avevo attraversato gli anni, mantenendo anch’io una promessa fatta per amore. Calpestando lo stesso cammino, forse senza saperlo, varcai per un attimo la stessa dimensione temporale.
Un film, una foto… un’altra ancora. Due storie legate così per caso, oggi, al mio riconoscermi in quello strano uomo viaggiatore.
E mentre dallo schermo nero una polka malinconica accompagna lo scorrere dei titoli di coda, io qui, ora, mi sento sempre un figlio abbandonato… e piango!

© Roberto Anzaldi

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