Nel punto, soltanto il suo “a capo”

Era proprio un bel colombo: sano, robusto, in perfetta forma. Da sempre sentiva di essere così, sotto ogni visibile aspetto. Viveva solitario, non provando quasi nessun interesse per i suoi simili. Avvertiva la diversità appartenergli, anche se la curva di piume del suo capo lo legava tenacemente a quella specie.
Un giorno si era come “acceso” sul mondo, o meglio, erano stati i suoi tondi occhi scuri a farlo. Di lì a breve, si trovò perfino a volare, anche se quella strana magia pensava non gli appartenesse del tutto. Era come aver ricevuto in prestito un dono meraviglioso, che prima o poi, però, avrebbe dovuto essere restituito. Conosceva pensieri semplici, quasi umani in verità. Si teneva naturalmente alla larga da tutto ciò che intuiva potesse contaminarlo. Quasi un intelligente orologio biologico, il suo. Non immaginava neppure il significato di karma, né conosceva assolutamente quell’antica parola. Forse, era questa la chiave nascosta di tutto ciò che non comprendeva. Captava una forza misteriosa, intensa e distinta, che sentiva attraversarlo.
Da un tempo lungo viveva dentro una città inventata. Una specie di villaggio dei sogni, concepito dal criterio di un imprenditore capace e realizzato. Un lago, artificialmente costruito, era splendido fulcro; attrazione primaria di quel surreale abitato così perfetto. Nel mezzo, alcune fontane a cascata creavano un suono di pioggia allegra. Nei giorni di vento, poi, sciami di goccioline danzavano cromaticamente sospese sull’acqua, creando giochi di luce e d’arcobaleno. Di lato, non distante da una riva, una piccola palafitta a forma di piramide aperta sul davanti, era rifugio promiscuo per anatre e oche, mentre ai cigni reali spettava di solcare rotte tracciate per noia dal loro naturale fascino. Tutto intorno, infiniti ettari di parco piantumato e verdissimo. Interrompevano, disegnando curve garbate, innumerevoli vialetti lastricati a pietra grezza, in cui i dolci saliscendi donavano un tocco quasi collinare. Immerse in questo fantastico contesto, le residenze abitative – così le chiamavano – si nascondevano quasi tra la fitta vegetazione perfettamente distribuita.
Un bel posto per viverci, senza dubbio. A lui piaceva tanto, appagava la sua diversità. Credeva, inoltre, che avesse un certo valore, la qualità della vita; non ne conosceva scientemente il motivo, ma lo sentiva. Anche per due aironi cenerini, con i quali condivideva soltanto qualche lembo di prato, era così. Arrivavano dalle ampie campagne al levar del sole: i corpi tesi, in assetto, mai rigidi, però. Vederli, là in alto, dava grande senso di attitudine al volo. Battiti d’ali lenti e cadenzati, rallentati poi, per posarsi con invidiabile leggerezza sul manto erboso. Rimanevano lì, senza fretta, fermi per molte ore, prima di un nuovo volo sul far della sera a guidarli nel tramonto verso una dimora notturna.
Lui, invece, dormiva tra gli alberi del parco, dentro una conca protetta dal terreno che le forti radici avevano creato. Coricato su di un fianco, con l’ala libera distesa come una coperta sul corpo. Aveva qualcosa di umano quella insolita postura. Così, in quel tempo racchiuso tra luce e buio, stava una porzione del suo mondo conosciuto, quasi accettato. Non gli piacevano proprio i suoi simili e non se ne curava. I suoi atteggiamenti, così estranei, dicevano molto di lui.
Di giorno prendeva un volo spensierato verso il centro di una città vera. Una cattedrale antichissima colma di guglie e figure a statua, lo attirava da sempre. Si aggrappava solitario in cima alla pietra scolpita: mai la stessa, mai per molto. Volgeva uno sguardo attento all’enorme piazza popolata sottostante. Mai e poi mai avrebbe fatto parte di un banchetto azzuffato; consumato quotidianamente, sotto i suoi occhi tondi stranamente espressivi, da ciò che gli sembrava non appartenergli per nulla. Tutto quell’affannarsi di piccioni ingordi e scomposti per un po’ di granaglia, offerta abbondantemente da turisti in posa, reputava fosse un comportamento sciocco e bestiale. Lui no! Lui aveva appuntamenti fissi con il cibo, veri contatti privati per nutrirsi. Un balzo deciso sulle zampe e via! La metropoli scorreva al di sotto, accompagnandolo in volo tra il caos dei suoi rumori sovrapposti.
A sud, nella periferia popolare, una finestra dell’ultimo piano lo attendeva già aperta. Un anziano signore viveva solo da un tempo che si poteva ancora ricordare. Il bizzarro volatile si posava sul davanzale emettendo un piccolo suono. L’uomo, che all’interno leggeva seduto, apparentemente distratto, si alzava lentamente portando nel gesto tutto il peso dei suoi molti anni. Nelle mani, minuscoli pezzetti di pane francese fresco e croccante. Li distendeva dentro un piccolo porta vaso di plastica verde, pulito come un piatto di banchetto nuziale. Attendeva in silenzio che quel curioso colombo così diverso, persino gentile nei modi, finisse di ingoiarli. Poi, rimanevano degli attimi a scrutarsi muti di parola, come se entrambi avessero bisogno di quel breve contatto. Volava via, così com’era venuto, scivolando sull’aria, dirigendosi a nord verso un’altra periferia.
In un vecchio stabile, un po’ decaduto, viveva una donna, anche lei sola. Non era sempre stata la sua condizione però, questo lo intuiva anche il pennuto. Tra loro c’erano abitudini diverse, come differente era il menù che l’anziana signora faceva trovare al suo singolare ospite alato. Dentro un piattino da caffè, leggermente rialzato, piccoli pezzetti di frutta fresca di stagione appagavano abbondantemente il suo esigente palato. Dopo aver goduto di quel dono, si puliva minuziosamente il becco sul bordo del piattino, ricordando il gesto che compiva il macellaio, quando affilava il coltello prima di separare lembi di carne diversi: un colpo a destra, uno a sinistra, ripetuto per un po’, quanto bastava per entrambi. All’anziana donna era sempre piaciuto vedere il suo amico colombo andare avanti e indietro sul suo davanzale. Zampettava lentamente con l’aria soddisfatta, quasi a farsi ammirare nel suo insolito, curato aspetto che non ricordava in nessun modo lo stereotipo del comune piccione. Ripagava volentieri così, con una breve e insolita sfilata, quella dolcissima anziana signora. Un piccolo accenno di saluto, poi, lo liberava dall’incontro.
Sentiva sempre forte il bisogno di tornare al suo villaggio dei sogni, al suo laghetto. Era quello il suo tempo riconosciuto, scandito da sempre da cose semplici ma di valore, per lui. Spesso faceva lunghe passeggiate in quel parco. Camminare gli era familiare, quasi più del volo. Lo infastidivano molto i bambini che, rincorrendolo, cercavano di spaventarlo agitando le loro voci sottili nel tono. Costretto, allora, allungava i piccoli passi, e se ciò non bastava, brevi balzi ripetuti lo separavano rapidamente da quelle seccanti presenze.
Nel suo abbondante vagare incontrava spesso un anziano signore, uno dei tanti, in verità. Stava seduto sulla carrozzina, sguardo fisso al cielo, come a dire che cose terrene non avevano più nessun interesse per lui; solo punte di altissimi alberi a mantenere un contatto. Lo spingeva pazientemente un uomo con tratti di terre lontane, forse spinto anche lui, sin lì, da un mero bisogno.
Mentre assorto nei suoi piccoli pensieri, dentro quella curva di piume del suo capo, zampettava lentamente attraversando i vialetti di pietra grezza, un bagliore fulmineo gli si accese come un dolore forte nella mente. Si ricordò, allora, per un attimo intenso, devastante. All’improvviso si riconobbe nitidamente in un nome. Ebbe istantanea memoria di affetti, di luoghi, di donne, di figli, di un amore… prima che un trattore, addetto alla manutenzione del parco, lo stritolasse per sempre sulla pietra grezza di quei vialetti.
Qualcosa, poi, attraversò il buio del nulla. Un altro bagliore, un nuovo dolore accompagnò le urla di una madre. Dentro al primario vagito di uomo l’anima ritrovò una nuova vita. Così il karma, silenzioso, si accostò a quel viaggio appena iniziato.
Forse era davvero questa la chiave nascosta di tutto ciò che non aveva compreso. Leggere nel punto, soltanto il suo “a capo”.

© Roberto Anzaldi

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