Come Pippo dei fumetti

Da quanto tempo non ci sei. Guardo quella foto e ti riconosco nel sorriso di un periodo ormai lontano. Siamo stati amici, semplici e leali. Compagni di scuola, piccoli ribelli oltre le mura di un insegnamento.
Eri già troppo cresciuto per i tuoi tredici anni. Pantaloni alla zuava, camminavi saltellando come Pippo dei fumetti, e quell’incedere strambo ti dava un’aria davvero buffa. Capelli color del grano, sottili ed aguzzi, portati un po’ lunghi perché potessero assecondare meglio, tutti insieme, leggi di gravità applicate. Avevi occhi furbi, grigi. Due incisivi generosi, amici marcati del tuo sorriso strafottente. Ti piaceva già fumare, ricordo. Non fosti tu, però, ad insegnarmi quel vizio adulto.
Venivo spesso, nei pomeriggi, a casa tua. Tu avevi una stanza, io no! Studiavamo il giusto, per noi, poi via a montare piste sempre nuove per le hot wheels; caricavamo il piccolo serbatoio accumulatore delle macchinine prima di un’altra sfida impossibile, tra curve paraboliche e giri della morte.
Scorreva così il nostro tempo ingenuo. Quante le ore trascorse in giro come randagi affamati di semplice libertà.
Ricordo quella volta in cui “sottraemmo”, da quell’enorme emporio giocattoli, due modellini in metallo di aerei da guerra. Tu uno Stukas, io uno Spitfire. Mi batteva forte il cuore per la paura d’essere scoperti. Cosa avrebbe detto mamma? Mi sentivo ingiusto. Il rumore del rimorso, poi, mi insegnò qualcosa, e non lo feci più.
Non eri cattivo, almeno non con me. L’indole però era quella, saresti potuto finire facilmente tra maglie bugiarde ed incantatrici, ma non era neppure quello il tuo destino.
Mi sentivo protetto da te, anche se avevamo la stessa età, eri più scaltro, spavaldo.
Gli altri ti vedevano esattamente così, come volevi mostrarti. Io no, io avevo sbirciato dietro le quinte del tuo teatrino, sapevo esattamente come fossi. Per questo mi fidavo e ti stavo vicino senza domande. Io ti conoscevo, Mauro, e tu questo l’hai sempre saputo. Forse ero quella parte infantile a cui a tratti sentivi ancora d’appartenere.
Un ricordo improvviso mi scorre dentro l’intima memoria di un giorno lontano, in cui i tuoi fecero visita a un loro parente. Tu mi invitasti a mangiare. Preparasti perfino gli antipasti per me, poi quel bicchierino di brandy rubato dalla credenza di tuo padre. Non fui però in grado di sopportare quell’alcol e fu tracollo. Vomitai pesantemente, a più riprese, nella vasca da bagno. Stavo male come mai più mi capitò nella vita. Tu ripulisti tutto senza nemmeno farmi un piccolo rimprovero. Mi vergognavo per quell’accaduto, ma il tuo sorriso scanzonato mi venne ancora in soccorso. Fu un segno d’amicizia, “quello”, che non avrei più scordato.
Non era ancora finita la scuola, ed un chiarore nuovo stendeva più luce nelle ore.
Quella domenica pomeriggio avevo insistito così tanto perché tu venissi a ballare con noi alla gloriosa “busa”.
Ci andavamo qualche volta, noi ragazzi alle prime esperienze di vergogna, più che di pulsioni. Tu però avevi già altri progetti. Quell’auto, da cui ascoltare il vento affacciato al finestrino, era richiamo difficile da ignorare. Così, insieme al cugino di un tuo amico, scegliesti di passare in quel modo un tempo sospeso, “maledetto”.
Erano le nove abbondanti di sera, quando suonarono alla mia porta quattro nostri amici. Quelle espressioni vuote, spaventate, furono sorpresa amara, gelo profondo. Mi dissero che eri morto, Mauro, in quel meraviglioso, dannato pomeriggio di sole. Morto contro il vento di un destino illegittimo.
Non sono riuscito neppure a piangere, perché antichi dolori miei, mai scacciati fino in fondo, si sommarono in quel momento come ammasso malvagio. Siamo scesi in piazza, Mauro, nella nostra piazza dove persino gli alberi ci riconoscevano. Abbiamo ricordato di te, nel silenzio dei nostri cuori ammutoliti dal dolore. Siamo venuti all’obitorio il giorno dopo. Io avevo paura di incontrarti in quel luogo. C’era tua madre accanto a te. Tu eri morto per davvero, Mauro; stavi disteso dentro una cassa di legno lucido con le maniglie di ottone, appoggiata sopra ad un vecchio carrello di metallo con le ruote di gomma. Avrei voluto fuggire lontano, urlando; invece ho pensato, muto, a quanti prima di te fossero stati appoggiati a quel carrello. Scacciavo così il dolore di te, come riuscivo.
Tua madre aveva un dramma composto scolpito sul volto, come solo un antico dipinto può tramandare. Ripeteva, con voce senza più tempo, come fosse pietosa cantilena, di metterti vicino alla Madonna. Io avevo spavento e freddo nel cuore, ma ti ho guardato. Avevi una ferita profonda sulla fronte, come fosse cima di un melograno. Una riga sottilissima di sangue ti attraversava i denti. Gli occhi, socchiusi, sembravano cera rappresa. Avevi una smorfia sul volto, quasi un ultimo sorriso. Chissà, forse hai sorriso davvero alla morte mentre ti stringeva.
Mi vergognavo di essere vivo davanti al dolore di tua madre. Lei che perdeva un giovane figlio senza più un domani. Sì, il tuo domani, Mauro, te l’ha rapito per sempre un giorno qualsiasi, un perché a me ancora ignoto. Non seppi neppure dove ti seppellirono. Io smarrivo la tua amicizia, e questo era tutto ciò che m’importava conoscere. Carri funebri, cimiteri, lapidi, fiori… tutte cose d’adulti che ricordavano a me altri dolori eterni, non troppo remoti.
Ora il tempo andato ha cancellato tutto, sai? La nostra piazza, gli amici, gli alberi che ci riconoscevano, padri, madri e tutto ciò che stato istante nostro, Mauro. Non la tua memoria però; ora che gli anni mi regalano l’istante calmo dei rimpianti, io sento attorno tutta la mia vita.
Mi incanta pensare che tu, ogni tanto, possa sbirciare l’esistenza chinando lo sguardo verso quaggiù. Qui c’è sempre un piccolo uomo, un ragazzo di ieri che ancora si ricorda di te… amico mio!

© Roberto Anzaldi

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