Tra indizi e … superstizione

Sembra una notte qualunque, questa. Un’altra notte da dover attraversare con tutte le sue ore di buio in fila. Ci sono fitte parole di un libro a farmi compagnia – come sempre – posate in occhi stanchi, sempre meno attenti e capaci di seguirne il senso. Cerco in ogni modo di vincere un sonno caparbio che mi cerca, mi vuole. Attendo con fatica che sia un’alba, prima o poi, con piccoli moti d’ansia; a cui di dare un volto preciso, non m’appartiene ancora una sensazione. E’ appena passata, in brevi attimi continui, al nuovo giorno l’ora, ma è sempre notte, scura e silenziosa.
Una crescente apprensione mi coglie impreparato: tento di gestire un pensiero che non porti con sé, soltanto un sapore primitivo di credenza popolare, così distante in verità dal mio ragionevole sentire. Oggi, venerdì tredici: questo è il punto! Farsi condizionare da ciò che mi permetterebbe di saggiare un sottile senso di vergogna, è da escludere, quindi… scaccio il pensiero e il suo archetipo di antica credenza.
Ore 04.15: ispeziono il perimetro interno di una vasta area impiegatizia guidando l’auto a passo di un vetusto bradipo insonnolito. Tutto regolare!
Ore 05,30: dovrei pisciare, ma il custode del complesso di uffici che sto professionalmente piantonando, arriverà soltanto tra un’ora. Esco dal mezzo istoriato, cercando per quel po’, una postura eretta abbandonata oramai da troppo tempo. Le gambe sono dure, infastidite e hanno urgente bisogno di passi. Giro intorno all’auto senza ragione alcuna. Ed è così che l’occhio, nonostante sia quasi a mezz’asta, trasmette alla massa cerebrale, alquanto nebulosa, il crudo concetto di “foratura”. No! E adesso? Vorrei farmi stritolare dai cingoli di un carro armato militare piuttosto che vestire, anche solo per mezz’ora, i panni dell’abile gommista. Ma nessuno, per questo credo, mi verrà certamente in soccorso. Un piccolo supporto a “u” di lamiera grezza e arrugginita; ricordo abbandonato di qualche cantiere dismesso chissà quando, si è conficcato maligno, come corna di toro, dentro il tessuto usurato di un pneumatico. Quindi, tra moccoli vergognosi e rovesci di scura bile, faccio ciò che mi rimane da compiere: “sostituisco”. Me la sbrigo nel lasso immaginato attendendo, almeno, di potermi liberare dai segni unti a imbrattarmi i palmi. Sarà, ma il custode arriva, proprio oggi, con cinquanta minuti di ritardo. La mia capacità di trattenere urina è quasi al collasso e l’umore sta per trasformarmi, nei tratti, in un barbaro assetato d’ingiurie. Ripulisco finalmente le mani dall’unto e mi svuoto, come breve piacere, dall’esausto liquido paglierino. Venerdì tredici: questo è il punto! Vorrei non si insinuasse questo pensiero strambo, ma due indizi, se non forse tre, fanno almeno una prova.
Ore 08.00: finalmente sono tornato a casa dalla mia notte ormai finita, sperando che più nulla venga a turbarmi i pensieri. Oggi è giorno di paga… almeno quello. Cercherò, quindi, di dormire qualche ora prima di raggiungere l’ufficio Comando per riscuotere l’assegno circolare; fonte mensile di sopravvivenza, più che di vita, da cui non potrei prescindere in nessun modo.
Ore 12,40: suona insistentemente il telefono di casa, costringendomi a una sveglia forzata, repentina. L’ansia proverbiale di mia sorella non le consente, neppure oggi, di attendere almeno fino alle tredici prima di chiamare. Così, tra imprecazioni trattenute e consigli su ciò che di chimico e del suo dosaggio, dovrebbe assumere per levarsi dalla testa tutti quegli stati compulsivi di cui fa ampio sfoggio, le suggerisco di trovarci per il pranzo; non fosse altro che per poterle maggiormente ribadire il concetto appena espresso.
Ore 13.30: entriamo nell’affollato ristorante. Il vociare di gente in veloce transito per un pasto è un rumore scomposto e fastidioso. Ci sediamo in attesa d’essere serviti. A fatica, cerco di regolare il respiro. Raccolgo tutte le buone intenzioni di abbandonare, definitivamente, ogni strano pensiero riferito a questo giorno infausto. Dopo circa venti minuti d’attesa – e non sono pochi – finalmente ordiniamo. C’è, però, un destino continuo e avverso oggi o chissà cosa, ma inverosimilmente, il cameriere fallisce la comanda. Ecco! Un quarto, singolare indizio. Così mangiamo, ciò che avevamo precedentemente ordinato, soltanto un’ora dopo.
Ore 15.00: Un saluto frettoloso all’ansiosa sorella ampiamente redarguita e mi precipito in Comando. Avrei giusto il tempo di ritirare l’assegno e di andarlo a versare in banca. Venerdì tredici: questo è il punto! Dopo aver atteso inutilmente allo sportello del personale, quindici minuti, arriva lapidaria la notizia: non se ne conoscerà mai scientemente la ragione, ma il mio tanto bramato “circolare” è finito, inspiegabilmente, tra quelli di un altro Comando periferico, distante da lì, circa venti chilometri. Sono addirittura cinque gli indizi adesso. Ho il volto livido e forse qualche macchia blu sparsa qua e là. Le mie parole quasi sensate, ora, escono con suoni strani e a stento dalle labbra morse tra i denti. Avrei voglia di bestemmiare, ululare, contorcermi, ma non mi farò dominare dalla superstizione… non ancora. Salgo in auto con il fuoco nella testa, mettendo in connessione tra loro tutti gli insegnamenti ricevuti, anni fa, da un corso di “guida veloce” cui partecipai. Intanto, nello stomaco irrequieto, i succhi gastrici fanno baldoria e conoscere il loro acre sapore.
Ore 15.50: finalmente raggiungo l’altro Comando periferico, così come il mio fottutissimo assegno. Spreco giusto il tempo di comunicare, con forza assoluta, qualche rimostranza per l’assurdo accaduto, poi, mi rituffo da superpilota nel traffico caotico. Mi restano circa quindici minuti per cercare di raggiungere la banca prima che chiuda gli sportelli fino il lunedì prossimo. Non è necessario, a questo punto, che io debba spiegazioni sulla natura dei miei intenti perseguiti con così tanta tenacia. Resta da osservare che, i contrattempi, comincino ad avere un peso assai difficile da giustificare semplicemente con il caso. Venerdì tredici: questo è il punto!
Ci poteva essere giorno peggiore per gli addetti del Comune e dei loro ingombranti mezzi, di potare gli alberi di un lunghissimo viale milanese in cui io, mi sarei potuto trovare oggi? La risposta non ha alcun valore di sorpresa, se non di sommare addirittura un sesto, insopportabile indizio: sostare, imbottigliato tra fitte maglie di un traffico quasi inverosimile, in entrambi i sensi di marcia. Rimanere prigioniero nella mia auto, corroso dalla rabbia e in preda a fitte e crampi allo stomaco, è grandemente duro da sopportare. Ogni obliquo pensiero mi affolla la mente, adesso. Cerco, mentre a lungo rimango un ostaggio imprecante senza nessuna possibilità di fuga, di scacciare i pensieri più neri, acciuffando brandelli d’umana coscienza ovunque mi si presentino. Riacquisto finalmente la libertà dalla stretta morsa del caos d’auto e, per assecondare ancora meglio il male, masticandolo fino in fondo, passo ugualmente davanti alla banca nonostante sia già tramontata; da un tempo che non voglio neppure ricordare, l’ora della chiusura. Non mi resta, quindi, che di sopportare il bruciore penetrante della sconfitta ancora per un po’. Silenzioso e con tutto il peso del cupo morale di un perdente qualsiasi, guido lentamente verso casa, come un anziano pensionato nella sua domenica di gloria. Avrei persino voglia di pregare, senza nessuna convinzione peraltro; per non sentirmi troppo blasfemo, affinché su ciò che rimane dell’oggi, non scenda null’altro di intollerabile.
Annichilito dallo strano concatenarsi degli eventi attendo, ora, nel silenzio del ventre rassicurante della mia casa, la fine di un giorno contrario. Avverto la rassicurante mancanza di possedere un cornetto rosso e ricurvo da tenere speranzoso tra le mani, per un po’. Non ho mai prestato attenzione a certe credenze popolari, anche se, a volte, è davvero difficoltoso non credere o almeno in parte, a una sorta d’adunanza malvagia di eventi negativi. E sei, dico, sei disgraziati indizi, fanno incredibilmente una prova, anche per il più incallito dei miscredenti.
Mi verrebbe di sostenere altro in verità, di più grezzo e verace, ma per un minimo d’equilibrio, di pudore ritrovato verso la dignità umana del pensiero cosciente, di questo taccio adesso, volentieri. Se ne va così un incredibile Venerdì tredici: tra indizi e… superstizione. Questo è stato il punto!

© Roberto Anzaldi

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